L'arte di ottenere ragione
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L’arte di ottenere ragione di Schopenhauer

Trentotto stratagemmi leciti e illeciti per vincere le discussioni

L’arte di ottenere ragione” è un piccolo trattato, scritto da Arthur Schopenhauer, probabilmente tra il 1830 e il 1831 ma pubblicato per la prima volta postumo nel 1864 con il titolo “Dialettica”.

Per chi non lo conoscesse, Arthur Schopenhauer (1788 – 1860 d.C.) è un filosofo tedesco dell’Ottocento, noto per la sua visione negativa del mondo in cui viviamo, da lui considerato come un luogo pieno di sofferenza e dolore, animato  dall’egoismo delle persone.

Per alcuni è da definirsi come il filosofo del pessimismo, per altri è una persona che due secoli fa all’età di 25-30 anni aveva già capito tutto della vita.

Nel suo trattato “L’arte di ottenere ragione”, Schopenhauer illustra 38 stratagemmi, leciti e illeciti e relative contromosse, per “ottenere ragione”. Inoltre nella descrizione di questi stratagemmi, espone una casistica di situazioni  come volgere a favore quelle in apparenza dannose e come sfruttare al massimo quelle vantaggiose.

La lettura del piccolo trattato di Schopenhauer è sia interessante che utile. Nel suo testo egli paragona le discussioni ad un incontro di scherma, in cui la dialettica è come un fioretto, da impugnare, per “colpire e parare” allo scopo di ottenere ragione nel disputare.

L'arte di ottenere ragione

Senza dilungarci nel dettaglio dei 38 stratagemmi, riportiamo qui di seguito un piccolo estratto di quanto scritto da Schopenhauer nel suo trattato “L’arte di ottenere ragione“.

Quanto da lui lasciatoci, è sicuramente utile per capire l’importanza di avere una buona dialettica per sostenere le nostre argomentazioni durante una negoziazione:

“La dialettica del diverbio è l’arte di discutere e precisamente di discutere in modo da ottenere ragione con mezzi leciti e illeciti. Si può infatti avere ragione nella cosa stessa, e tuttavia avere torto agli occhi dei presenti e talvolta anche dei propri (…). Da cosa dipende tutto questo? Dipende dalla naturale cattiveria del genere umano. Se questa non esistesse, se nel nostro fondo fossimo tutti leali, in ogni discussione si cercherebbe esclusivamente di portare alla luce la verità, senza badare se essa è corrispondente al parere che noi abbiamo espresso oppure a quello dell’altro. Diventerebbe indifferente o, per lo meno, sarebbe una cosa del tutto secondaria.

Ma qui sta il punto principale. L’innata vanità, soprattutto suscettibile riguardo all’intelligenza, non sopporta che l’opinione da noi esposta in principio risulti errata, e veritiera quella dell’avversario.

Se così fosse, ciascuno non dovrebbe fare altro che cercare di pronunciare soltanto giudizi giusti, quindi dovrebbe prima pensare e poi parlare.

Corretto sarebbe invece impegnarsi a giudicare senza pregiudizi, il che presupporrebbe una sola condizione: riflettere prima di parlare. Ma nella maggior parte delle persone, all’innata vanità si associa, una loquacità e una innata disonestà. Essi parlano prima di pensare, e anche se poi si accorgono che la loro affermazione è falsa, e hanno torto, desiderano comunque far apparire il contrario.

L’interesse a conoscere la verità che era forse l’unico motivo per sostenere inizialmente la tesi, cede ora completamente all’interesse della vanità: il vero deve apparire falso e il falso vero.

Ne deriva che, di regola, chi disputa, non lotta per la verità, ma per imporre la propria tesi. Dunque, di norma ciascuno vorrà far prevalere la propria affermazione, anche quando per il momento gli appare falsa o dubbia; e i mezzi per riuscirvi sono, in certa misura, offerti a ciascuno dalla propria astuzia e cattiveria: a insegnarli è l’esperienza quotidiana nel disputare.

Machiavelli insegna al principe di sfruttare ogni momento di debolezza del suo vicino per attaccarlo: perché altrimenti questi potrebbe un giorno sfruttare il momento in cui e lui a essere debole. Se regnassero fedeltà e onestà, le cose sarebbero diverse: ma siccome però non ce le dobbiamo attendere, non è consigliabile esercitarle, perché sono cose mal ripagate. Ciò vale anche nella disputa. È facile dire che bisogna perseguire solo la verità senza predilezione per la propria tesi: ma non si deve presupporre che l’altro lo farà: e allora non dobbiamo farlo neppure noi.

In genere l’uomo non manca di una naturale logica, ma spesso è carente di una naturale dialettica, che è un dono di natura distribuita in modo diseguale (così come la capacità di giudizio e la ragionevolezza). Spesso succede che si lasci confondere e confutare da argomentazioni solo apparenti, pur avendo ragione, oppure il contrario: e chi esce vincitore da una disputa molto spesso lo deve non tanto all’esattezza del suo giudizio nell’esporre la propria tesi, quanto piuttosto alla propria astuzia e l’abilità nel sostenerla.

Anche in questo caso il dono di natura gioca un grosso ruolo, tuttavia l’esercizio e le riflessioni sulle frasi con cui demolire l’avversario, o quelle da lui più adoperate per demolire, possono ben aiutare a diventare maestri in quest’arte. Dunque, dove la logica non porta un vantaggio reale, può venire in aiuto la dialettica.

L'arte di ottenere ragione

Porre le basi per una dialettica pura significa considerarla, senza badare alla verità oggettiva (che è compito della logica), semplicemente come l’arte di ottenere ragione, la qual cosa sarà certo tanto più facile se si ha effettivamente ragione.

Ma la dialettica come tale deve insegnare soltanto come difendersi da attacchi di qualsiasi genere, in particolare da quelli sleali, e altrettanto, come attaccare le affermazioni dell’altro senza contraddirsi e soprattutto senza essere confutati. Bisogna separare nettamente la ricerca della verità oggettiva dall’arte di imporre come vere le proprie tesi: la prima è compito di tutt’altra trattazione, opera di giudizio, di meditazioni, di esperienza, e per questo non esiste un’arte; mentre la seconda è oggetto della dialettica.

Quest’ultima è stata definita la logica dell’apparenza: errore, perché’ se così fosse essa servirebbe solo a difendere tesi false. Invece, anche quando si ha ragione si ha bisogno della dialettica per sostenerla e si deve conoscere gli stratagemmi sleali per opporvisi: anzi, spesso bisogna anche farne uso per battere l’avversario con le sue stesse armi.

Dunque, viene da sé che, nella dialettica, la verità oggettiva va messa da parte o considerata come accidentale, e bisogna badare solo a come difendere le proprie affermazioni e rovesciare quelle dell’altro. Nello stabilire le regole della dialettica non si deve prendere in considerazione la verità oggettiva, perché’ per lo più si ignora dove essa si trovi.

Spesso, noi stessi non sappiamo se siamo o meno nella ragione, talvolta lo si crede sbagliando, talvolta lo credono ambedue le parti: perché’ veritas est in puteo (la verità sta’ nel profondo – Democrito). Nel momento in cui si sviluppa la contesa ognuno pensa in genere di avere la ragione dalla propria parte; successivamente, nel corso del diverbio, a entrambi sorge il dubbio: solo alla fine si scoprirà la verità.

Dunque, la dialettica non deve avventurarsi nella verità. Come il maestro di scherma, che non considera chi abbia effettivamente ragione nella contesa che ha dato origine al duello: colpire e parare; questo è quello che conta. Lo stesso vale per la dialettica: che è una scherma spirituale; solo se intesa in modo così puro, potrà reggere come disciplina a sé stante.

L'arte di ottenere ragione

Se lo scopo fosse la verità oggettiva, ritorneremo alla mera logica; se difendessimo proposizioni false passeremo alla mera sofistica. In entrambi i casi si porrebbe il pregiudizio di ciò che è obiettivamente vero o falso, ma questa certezza esiste raramente a priori.

Il vero concetto della dialettica è perciò quello appena formulato: scherma spirituale per ottenere ragione nel disputare”.

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Se vuoi sapere di più su questo autore, leggi anche l’articolo presente su questo blog dal titolo: Arthur Schopenhauer.

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