Il termine Groupthink ( pensiero di gruppo ) è il termine con cui si indica il sistema di pensiero esibito dai membri di un gruppo per sopprimere o minimizzare le situazioni conflittuali e raggiungere il consenso sociale, senza però aver svolto un’adeguata analisi e valutazione critica delle idee che serve ad evitare di prendere decisioni sbagliate o irrazionali.
Tra i fattori che possono favorire l’emergere del “Groupthink” ci sono i rapporti formali e gerarchizzati e le pressioni di autorità esterne finalizzate a decidere in tempi brevi e all’unanimità.
La conseguenza di questi atteggiamenti, nel momento in cui il gruppo deve prendere decisioni, è una diminuzione dell’obiettività, della razionalità e della logica, che porta a prendere decisione negative od irrazionali come: “Quando tutti la pensano alla stessa maniera, allora possiamo star certi che nessuno pensa veramente” [1].
Lo psicologo Parisio Di Giovanni, nel suo libro “Psicologia della Comunicazione” ne fornisce un’efficace definizione:
“Nel groupthink il consenso in seno al gruppo è elevato e il senso critico praticamente assente. I singoli si auto-censurano, evitano di esprimere dubbi o critiche per non mettere in crisi lo spirito di corpo che anima tutti. Se qualcuno prova ad avanzare una critica, subito viene ripreso dal leader o dagli altri e trattato come se avversasse il gruppo: (rallenta il lavoro, guasta il clima, incrina i rapporti tra colleghi, etc.). Si crea così un’illusione di un’unanimità che induce ulteriore autocensura e avvia una spirale di silenzio: in un gruppo dove sembra regnare l’accordo generale è difficile andare controcorrente, il fatto che nessuno vada controcorrente rafforza l’impressione di accordo generale e così via.… Il pensiero del gruppo viene contrapposto al pensiero di altri e giudicato più intelligente e morale. La carenza di riflessione critica e il senso di infallibilità portano a decidere senza prendere in esame tutte le alternative possibili e senza valutare attentamente i rischi pratici ed etici delle scelte”.
In molti corsi sulla negoziazione e gestione dei rischi, per spiegare quanto il “Groupthink” possa essere negativo, viene preso a considerazione il caso dell’esplosione in volo dello Space Shuttle Challenger, avvenuta il 28 gennaio 1986 che causò la morte dei sette membri dell’equipaggio.
In quell’occasione i decisori della NASA, sotto la tensione dei continui ritardi nel lancio e delle pressioni esterne affinché la data programmata del 28 gennaio fosse rispettata (lo Space Shuttle avrebbe anche dovuto portare in orbita due sonde, la cui finestra di lancio stava di lì a poco per chiudersi) avevano sottovalutato la segnalazione di alcuni ingegneri dell’azienda produttrice dei propulsori. Erano a conoscenza del fatto che le temperature anomale per il clima mite della Florida (nella mattina del lancio, il termometro scese sotto lo zero) potessero danneggiare le caratteristiche di resistenza e tenuta degli anelli di guarnizione di gomma progettati per sigillare i quattro segmenti dei razzi usati per il lancio. Queste effettivamente cedendo, provocarono l’esplosione.
Come prevenire l’emergere del Groupthink
Vi sono diverse modalità per prevenire il fenomeno del Grouphink:
- L’utilizzo del Brainstorming
- L’avvalersi di esperti esterni imparziali per agevolare le decisioni
- La possibilità di una seconda sessione per poter presentare alternative o nuove soluzioni
- Creazione di molti gruppi di lavoro indipendenti che lavorino sullo stesso tema
- La diversità arricchisce. Inserire pertanto nel gruppo persone con professionalità diverse ed esperienze nuove, può aiutare tutti gli altri nel prendere decisioni migliori
- Incoraggiare l’emergere di critiche costruttive
- Assegnare il compito di effettuare delle critiche all’”Avvocato del diavolo”. La persona dedicata a questo compito, sapendo qual è il suo ruolo, non si sentirà così inibita ad emetter giudizi. Le sue eventuali critiche potranno certamente aiutare tutto il gruppo a pensare più attentamente alle soluzioni e/o decisioni da prendere
- Un leader che resti imparziale durante tutto il confronto e che intervenga solo alla fine, per aiutare a tirare le conclusioni
Da dove arriva il termine Groupthink
La parola “Groupthink” è apparsa per la prima volta come titolo di un articolo della rivista Fortune nel marzo 1952, scritto dallo statunitense William H. Whyte Jr. il quale evidenziava la preoccupazione di quanto i pensieri delle persone in America fossero guidati quasi totalmente dai capricci e dai pregiudizi della massa e come le persone in generale fossero incapaci di qualsiasi vera autodeterminazione del loro destino.
Vent’anni dopo, nel 1972, lo psicologo sociale americano Irving L. Janis utilizzò il termine, nel suo scritto: Groupthink: Psychological Studies of Policy Decisions and Fiascoes, che si concentrava sul meccanismo psicologico, per cui le persone cercano il consenso all’interno di un gruppo.
In particolare, Janis nel suo testo spiega come il fenomeno del Groupthink abbia contribuito ai principali fiaschi americani in politica estera, come:
- l’attacco giapponese di Pearl Harbor del 07 dicembre 1941, in cui lo Stato Maggiore Americano ha vistosamente sottovalutato il rischio di attacco giapponese a quanto pare ignorando anche segnalazioni dell’intelligence
- gli errori commessi, dall’amministrazione statunitense, nel 1961, durante l’invasione della Baia dei Porci, da parte di circa 1500 esuli cubani anti-castristi, addestrati dalla CIA per abbattere il regime cubano di Fidel Castro. Nonostante i molti avvisi emessi da personale competente, contrari all’appoggio americano, l’invasione fu un vero e proprio disastro di immagine per la politica estera americana. Ricordiamo inoltre che tra i risultati negativi dell’operazione vi fu l’avvicinamento ulteriore all’Unione Sovietica di Fidel Castro, il quale deciso a dotarsi di missili difensivi sovietici, per evitare altre invasioni, causò la crisi dei missili russi installati nell’isola di Cuba, crisi che poi rischiò di portare l’umanità ad un passo di una nuova guerra mondiale.
- il graduale coinvolgimento degli Stati Uniti, ufficialmente dal 1964, nella guerra del Vietnam, decisi a fornire, dopo i fallimenti politici avvenuti a partire dalla mancata invasione dell’isola di Cuba, una dimostrazione della loro potenza politico militare nel Sud-est asiatico.
[1] Si tratta di una frase scritta da Valter Lippmann (1889–1974), giornalista e politologo statunitense, famoso per aver coniato alla fine della Seconda guerra mondiale l’espressione (cold war) “guerra fredda” per descrivere quell’ostilità che non sembrava più risolvibile attraverso una guerra frontale tra le due superpotenze USA e URSS, dato il pericolo per la sopravvivenza dell’umanità rappresentato da un eventuale ricorso alle armi nucleari.
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