Con la cacciata dell’ultimo re di Roma, Tarquinio il Superbo, avvenuta nel 509 a.C. la città di Roma si era trasformata da Monarchia a Repubblica.
Il re Tarquinio di origine etrusca fu descritto dagli storici antichi romani come un tiranno.
In realtà la sua cacciata rifletteva la volontà delle principali famiglie nobili romane di assumere il controllo diretto della città, sottraendolo agli etruschi.
A quei tempi i cittadini romani erano divisi in due classi sociali:
- I patrizi, che rappresentavano la nobiltà;
- La plebe, composta in prevalenza da contadini ed artigiani.
I patrizi, successivamente alla cacciata dell’ultimo re, concentrarono tutto il potere e le cariche pubbliche nelle loro mani, dividendosi inoltre la maggior parte delle terre a danno della plebe.
Nei primi anni della repubblica, la città di Roma si era molto impegnata nella conquista dell’Italia centrale. Erano quelli i periodi in cui si era continuamente in guerra con gli altri popoli della regione, in particolare: Equi, Volsci e Sabini.
L’esercito che nella maggior parte dei casi era composto da artigiani e contadini appartenenti alla plebe era sempre in costante mobilitazione pertanto era molto difficile per i soldati plebei curare le botteghe e le campagne.
Di conseguenza, soprattutto in quel periodo, la maggior parte degli appartenenti alla plebe versavano in precarie condizioni di vita.
Piena di debiti, in quanto le continue guerre non gli permettevano di curare i propri interessi, la plebe si sentiva sfruttata e completamente esclusa dalla partecipazione alla vita politica della città.
Inoltre, le leggi sul debito – Nexum – che prevedevano che in caso di mancato pagamento i debitori potevano essere ridotti in schiavitù, di fatto favorivano i patrizi che approfittavano di questa situazione per far prevalere i loro interessi nei confronti dei plebei.
I plebei avevano sempre manifestato il loro risentimento nei confronti del senato rappresentato dai soli patrizi, soprattutto per quanto riguardava le leggi sul debito.
Questo risentimento esplose poi, in particolar modo, nel 495 a.C. in una sommossa con la quale i plebei chiesero al senato di intervenire in loro favore.
Mentre il senato decideva sul da farsi, alcuni senatori avrebbero voluto sedare la sommossa con le armi mentre altri invece volevano un compromesso, arrivò la notizia che i Volsci stavano approntando un esercito per marciare contro Roma.
Il senato voleva immediatamente preparare un esercito da contrapporre ai Volsci, ma la plebe che come si diceva, componeva il grosso delle legioni, si rifiutò di rispondere alla chiamata alle armi.
A quel punto esponenti del senato promisero alla plebe che una volta conclusa la campagna militare, avrebbero messo mano ad una riforma volta sia alla questione del debito sia a migliorare le condizioni di vita.
A fronte di tale impegno, i giovani appartenenti alla plebe che erano stati chiamati alla leva, abbandonarono l’ostruzionismo e aderirono in massa alla chiamata alle armi.
Terminata la guerra, con esito favorevole per i Romani, che permise di ottenere un discreto bottino e senza grosse perdite tra i soldati, il Senato però non sembrava tanto propenso a mantenere quegli impegni presi da alcuni senatori con la plebe.
La scintilla che rovinò il rapporto tra i soldati appartenenti alla plebe ed il senato si ebbe quando quest’ultimo col pretesto di una ripresa di ostilità, stavolta da parte degli Equi, ordinò che l’esercito venisse condotto fuori dalla città.
A quel punto, i soldati appartenenti alla plebe che, come detto, costituivano il grosso dell’esercito si ammutinarono all’autorità del senato e si ritirarono sul Monte Sacro situato sulla riva destra dell’Aniene, a tre miglia da Roma (per alcuni storici non è il Monte Sacro, ma sarebbe l’Aventino).
Lì, senza nessuno che li guidasse, i soldati appartenenti alla plebe, abbandonati al loro destino, e temendo un’azione di forza organizzata dal senato iniziarono a fortificare in tutta calma il campo con fossati e palizzate.
I senatori a loro volta temevano la parte di plebe rimasta in città, ed erano incerti se fosse preferibile che essa rimanesse o se ne andasse.
Tutta la città di Roma entrò nel panico più totale. E poi, quanto sarebbe durata quella situazione? Che cosa sarebbe successo se fosse scoppiata nuovamente una guerra con le altre popolazioni italiche?
Il senato a quel punto decise che era arrivato il momento di dialogare.
Inviò quindi nel campo dove si erano asserragliati i soldati, appartenenti alla plebe, un portavoce. Si trattava di: Menenio Agrippa, uomo dotato di straordinaria retorica e ben visto dalla plebe per le sue origini popolari.
Racconto dello Stomaco e delle Membra fatto da Menenio Agrippa alla plebe romana
Una volta introdotto nel campo, Menenio Agrippa, raccontò quanto segue:
Quando le varie parti del corpo umano non costituivano ancora un tutt’uno armonico, ma ciascuna di esse aveva un suo linguaggio e un suo modo di pensare autonomi, tutte le altre parti erano indignate di dover sgobbare a destra e a sinistra per provvedere a ogni necessità dello stomaco, mentre questo se ne stava in silenzio lì nel mezzo a godersi tutti i piaceri che le altre parti del corpo gli davano.
Allora, decisero di accordarsi così: le mani non avrebbero più portato il cibo alla bocca, la bocca non si sarebbe più aperta per prenderlo, né i denti lo avrebbero più masticato.
Mentre, arrabbiate, credevano di far morire di fame lo stomaco, tutte le parti del corpo incominciarono a ridursi pelle e ossa.
In quel momento capirono che anche lo stomaco aveva una sua funzione e non se ne stava inoperoso: nutriva tanto quanto era nutrito e a tutte le parti del corpo restituiva, distribuito equamente per le vene e arricchito dal cibo digerito, il sangue che ci dà vita e forza. (Tito Livio – Ab Urbe condita, libro II, 32).
Morale della favola raccontata da Menenio Agrippa
Mettendo in parallelo la ribellione delle parti del corpo con la rabbia della plebe nei confronti del senato, Agrippa spiegò con una metafora l’ordinamento sociale romano paragonandolo ad un corpo umano che riesce a sopravvivere solo se tutti collaborano, o al contrario se ciò non avviene tutti periscono.
Grazie a quella favola la plebe capì quindi che sarebbe dovuta restare unita con i patrizi, in quanto legati da comuni interessi, e che sebbene svolgessero ruoli differenti, erano entrambi importanti per la sopravvivenza della città.
Vennero quindi subito avviate delle trattative per affrontare il tema della riconciliazione che giungeranno al seguente compromesso:
La plebe avrebbe avuto dei magistrati sacri e inviolabili il cui compito sarebbe stato quello di prendere le sue difese contro i consoli, e nessun patrizio avrebbe potuto avere quest’incarico.
Era il 494 a.C. ed erano appena stati creati i Tribuni della plebe.
Se ti interessano alle storie sull’antica Roma, leggi anche l’articolo presente su questo blog dal titolo: Origini di Roma
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