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Le avventure del giovane Carlo Goldoni

Dall’adolescenza all’esordio nel Teatro

Carlo Goldoni nasce a Venezia il 25 febbraio del 1707, da una famiglia benestante e fin da giovanissimo dimostra una vera e propria passione e attrazione nei confronti del teatro ereditata dal padre e dal nonno.

Da Memorie, di Carlo Goldoni, Cap. I: “Mio nonno […] aveva in casa commedia e opera, tutti i migliori attori, tutti i più rinomati musici stavano al suo comando, vi si concorreva da ogni parte. Io nacqui in questo strepito, in questa dovizia, potevo disprezzar gli spettacoli, potevo non amare l’allegria?

Con la morte del nonno, avvenuta nel 1712, la situazione economica della famiglia però cambia…

Da Memorie, di Carlo Goldoni, Cap. I: “Nel 1712 morì mio nonno. […] Ecco l’istante di una mutazione terribile nella nostra famiglia, la quale precipitò tutt’a un tratto dalla comodità più felice nella mediocrità più disagiata.

Suo padre, Giulio Goldoni, lascia Venezia per Roma dove rimane per quattro anni a studiare medicina e, una volta laureato dottore, si trasferirà a Perugia.

Carlo rimane nel frattempo a Venezia con la madre.

Da Memorie, di Carlo Goldoni, Cap. I: “Mi fu assegnato un maestro. Amavo molto i libri; […] la mia lettura favorita era quella degli autori comici, […] leggevo e rileggevo spessissimo il Cicognini, era quello che preferivo a ogni altro. Questo autore fiorentino, pochissimo conosciuto nella repubblica delle lettere, aveva fatto parecchie commedie d’intreccio, […] vi si trovava nulladimeno molto diletto, e aveva l’arte di mantenere la sospensione e di piacere con lo scioglimento. Presi per esso un’infinita propensione; lo studiai molto, ed ebbi all’età di otto anni la temerità di abbozzare una commedia. […] Se il lettore mi domandasse qual era il titolo della mia composizione, non sarei in grado di soddisfarlo, poiché questa fu una bagatella cui niente riflettei nell’eseguirla”.

Studia, senza grande entusiasmo, prima a Perugia, dove nel frattempo si era riunito a suo padre, e successivamente a Rimini, da cui scappa, insieme a una Compagnia di attori, per tornarsene a Chioggia, luogo dove, nel frattempo, si erano trasferiti entrambi i genitori.

Suo padre vorrebbe che diventasse medico, come lui, e inizia a portarlo con sé nelle visite ai pazienti.

Da Memorie, di Carlo Goldoni, Cap. VI e VII: “Vedendomi ozioso e mancando in città buoni maestri per occuparmi, volle egli stesso far qualche cosa di me. Mi destinava alla medicina, […] e nell’aspettare le lettere di chiamata per il collegio di Pavia mi ordinò di andar seco alle visite che giornalmente faceva. Era di pensiero che un poco di pratica precedente allo studio della teoria fosse per darmi una cognizione superficiale della medicina, e fosse utilissima all’intelligenza dei termini tecnici e dei primi principi dell’arte. Non era la medicina di troppo mio piacere, ma non bisognava esser recalcitrante, poiché si sarebbe detto che non volevo far nulla. 

Seguii dunque mio padre; vedevo con lui la maggior parte dei malati, tastavo i polsi, guardavo le orine, esaminavo gli sputi, e molte altre cose che mi ripugnavano. […]

La medicina non mi andava a genio, ero divenuto triste e pensieroso, e smagrivo a colpo d’occhio. Non tardarono ad accorgersene i miei genitori, e mia madre ne tenne proposito per prima: le confidai i miei disgusti.

Un giorno nel quale eravamo tutti a tavola in famiglia, senz’alcuno di fuori e senza servitori, fece cadere il discorso sul conto mio. Fuvvi un dibattimento di due ore, e mio padre assolutamente voleva che io mi dessi alla medicina. Avevo un bell’agitarmi, far minacce, brontolare, egli non dava quartiere; finalmente mia madre gli dimostra che ha torto, ed ecco come:

– Il marchese Goldoni, dice, vuol prendersi cura di nostro figlio; se Carlo è un buon medico, il suo protettore potrà favorirlo, è vero, ma potrà dargli dei malati? Potrà impegnare il mondo a preferirlo a tanti altri? Potrebbe procurargli un posto di professore a Pavia, ma quanto tempo e quanta fatica per giungervi! All’opposto, se mio figlio studiasse la legge, se fosse avvocato, un senatore di Milano potrebbe fare la sua fortuna senza la minima pena e senza la minima difficoltà. –

Mio padre non rispose, rimase per qualche momento in silenzio. Indi, volto verso di me, mi disse scherzoso: – Ameresti il Codice e il Digesto di Giustiniano? – Sì, padre mio, risposi, assai più degli aforismi d’Ippocrate. – Tua madre, soggiunse, è donna; pure mi ha presentate delle buone ragioni, e potrei aderirvi; frattanto non bisogna stare senza far nulla, e seguiterai a venir meco. –

Eccomi tuttavia in rammarico. Mia madre prende allora vivamente le mie difese; consiglia mio padre di mandarmi a Venezia e di collocarmi in casa di mio zio Indric, uno dei migliori procuratori della curia della capitale, proponendosi di accompagnarmi ella stessa e di restar meco sino alla mia partenza per Pavia. La zia spalleggia la proposta della sorella; alzo le mani e piango dalla gioia: mio padre vi acconsente.

Eccomi contento; le mie malinconie si dissipano nell’istante, e quattro giorni dopo partiamo mia madre e io. Non vi erano che otto leghe di traversata: arrivammo a Venezia all’ora di pranzo, andammo in casa del signor Bertani, zio materno di mia madre, e il giorno appresso andammo in casa del signor Indric. […] A Venezia adempivo molto bene in casa del procuratore al mio dovere nell’impiego, e avevo acquistato molta facilità nel fare il sommario dei processi. Mio zio mi avrebbe voluto presso di sé, ma sopraggiunse una lettera di mio padre che mi richiamava.

Era rimasto vacante un posto nel collegio del Papa, ed era già stato fissato per me. […] A Pavia i collegiali sono riguardati come gli ufficiali di guarnigione: li detestano gli uomini, e le donne li ricevono.

Piaceva alle signore il mio gergo veneziano, che mi dava qualche vantaggio sopra i compagni; la mia età e la figura non dispiacevano; le mie strofette e canzoni non erano ascoltate con disgusto.

Era mia colpa se impiegavo male il tempo? Sì, perché in quaranta che eravamo ve n’erano alcuni savi e costumati, che avrei dovuto imitare: Ma non avevo che sedici anni, ero allegro, ero debole, amavo il piacere, e mi lasciavo sedurre e rapire.

 

Un anno più tardi, incastrato da alcuni compagni di scuola, invidiosi della stima di cui godeva, Carlo Goldoni verrà poi espulso dal collegio Ghislieri di Pavia per aver scritto una satira contro alcune ragazze della città.

Da Memorie, di Carlo Goldoni, Cap. XIII e XIV: “Ero debole per temperamento, pazzo per occasione: cedetti; presi l’impegno di appagare quelli che credevo fossero miei amici, e posi loro le armi in mano contro di me. Avevo deliberato di comporre una commedia secondo il gusto di Aristofane […]; composi un’Atellana, genere di commedia informe presso i Romani, che conteneva soltanto satire e facezie. Il titolo della mia Atellana era Il Colosso. Per dare alla mia statua colossale la perfezione della bellezza in tutte le sue proporzioni, presi gli occhi della signorina tale, la bocca di questa, la gola di quell’altra ecc; nessuna parte del corpo era trascurata, ma artisti e amatori, tutti d’opinione diversa, trovarono difetti dappertutto. Era una satira che doveva ferire la delicatezza di parecchie famiglie onorate e rispettabili; ebbi la disgrazia di renderla gradevole con motti piccanti, e con dardi di quella vis comica, che maneggiavo con molta naturalezza e nessuna prudenza. […] L’Atellana faceva la novità del giorno: gli indifferenti si divertivano dell’opera e condannavano l’autore. Ma dodici famiglie gridavano vendetta: mi si voleva morto. […] Che orrore! Che rimorsi! Che pentimenti! Eclissate le me mie speranze, sacrificato il mio stato, perduto il mio tempo; parenti, protezioni, amici, conoscenze, tutti contro di me; ero afflitto, desolato: stavo nella mia camera, non vedevo alcuno, alcuno non veniva a trovarmi. Che doloroso stato! Che disgraziata condizione! […] Avevo sempre avanti gli occhi il torto che avevo fatto a me stesso, e l’ingiustizia che avevo commessa contro gli altri; e quest’ultima riflessione mi faceva sensazione anche maggiore della sciagura che avevo meritato. Se dopo sessant’anni rimane ancora a Pavia qualche memoria della mia persona e della mia imprudenza, ne domando perdono a coloro che io avessi offesi, assicurandoli che ne fui punito abbastanza, e credo espiato ormai il mio fallo”.

 

Nel 1729 si trasferì a Feltre per svolgere l’attività di coadiutore della Cancelleria criminale.

Da Memorie, di Carlo Goldoni, Cap. XX: “Feltre è una città che fa parte della Marca Trevisana, provincia della Repubblica di Venezia, sessanta leghe distante dalla capitale, e ha vescovado e molta nobiltà. La città è montuosa, scoscesa, e talmente in ombra di neve in tutto l’inverno, che le porte delle abitazioni nelle strade più anguste rimanendo chiuse dal ghiaccio, bisogna uscire per le finestre dei primi piani. Si attribuisce tra l’altro a Cesare il seguente verso latino: Feltria perpetuo nivium damnata rigori.”

In questo periodo scrisse in forma dilettantesca due rappresentazioni: Il buon padre, poi intitolato Il buon vecchio, che andrà perduto, e La cantatrice, con cui debuttò al Teatro de la Sena o “della scena” di Feltre.

Tra le varie amicizie che Goldoni frequentava in quel periodo a Feltre, vi erano anche due sorelle.

Da Memorie, di Carlo Goldoni, Cap. XX: Si trovavano in questa compagnia due sorelle, una delle quali era maritata, l’altra no. Quest’ultima mi andava molto a genio. […] Ella era savia e modesta, quanto sua sorella era matta; […] divenimmo amanti l’uno dell’altra.

La povera ragazza mi amava teneramente e con piena fiducia; l’amavo io pure con tutta l’anima, e posso dire che questa sia la prima donna che veramente abbia amato. Aspirava a divenir mia moglie, e tale sarebbe realmente divenuta, se alcune particolari e ben fondate riflessioni non mi avessero distolto.

Sua sorella maggiore era stata una rara bellezza, e divenne brutta dopo i primi parti. La minore aveva la medesima carnagione, i medesimi lineamenti, ed era una di quelle delicate bellezze che l’aria stessa fa appassire, e che il minimo incomodo scompone. […]

Ero giovane, e, se mia moglie dopo qualche tempo avesse perduta la sua freschezza, prevedevo quale sarebbe stata la mia disperazione.

È vero che questo era troppo ragionare per un innamorato, ma o fosse virtù o debolezza o incostanza, lasciai Feltre senza sposarla”.

 

Il 21 gennaio 1731, muore improvvisamente il padre di Carlo. A quel punto la madre lo sprona a completare gli studi di giurisprudenza, cosa che avviene a Padova e, una volta rientrato a Venezia, intraprende la professione di avvocato, alternando periodi dedicati alla professione dell’avvocatura ed altri al teatro, con una vita comunque sempre movimentata.

Da Memorie, di Carlo Goldoni, Cap. XXIV: “Ero già avvocato, già ero stato presentato alla curia, e non si trattava che di aver clienti: mi portavo ogni giorno al palazzo a udire le arringhe dei maestri dell’arte: e guardavo per ogni dove se il mio aspetto risvegliava effetti simpatici in qualche litigante, che avesse avuta volontà di produrmi almeno in una causa di appello. […] Questa è la sorte dei principianti; v’abbisognano tre o quattr’anni prima di giungere a farsi un nome e a guadagnare denaro. […] I miei affari andavano male, mi trovavo dissestato, e lo studio non mi fruttava nulla; avevo bisogno di trar profitto dal mio tempo. In Italia i guadagni della Commedia sono dell’ultima mediocrità per l’autore: non vi era che l’Opera, che potessi farmi avere cento zecchini in un tratto. Con questa mira composi una tragedia lirica intitolata Amalasunta”.

 

A Venezia sta anche per sposarsi, cosa che però non farà. Interessantissima è la lista delle regole per arrivare al matrimonio, presa da Memorie, di Carlo Goldoni, Cap. XXVI: “In Venezia per maritarsi in buona regola e con tutte le follie del costume, abbisognano molte più cerimonie che in qualunque altro luogo.

Prima cerimonia: la firma del contratto con l’intervento dei parenti e degli amici; formalità che noi avevamo evitato, avendo firmato il nostro alla chetichella.

Seconda cerimonia: la presentazione dell’anello. Non è già questo l’anello nuziale, ma una gioia o un solitario che il futuro sposo deve regalare alla sua bella. Sono invitati in quel giorno parenti e amici; grand’apparato in casa, molto fasto, la massima gala, né si fa mai veruna adunanza in Venezia senza che vi siano rinfreschi costosissimi. Non avevamo potuto evitarlo: il nostro matrimonio doveva far dello strepito; bisognava fare come gli altri e andare fino in fondo.

Terza cerimonia: la presentazione delle perle. Alcuni giorni precedenti quello della benedizione nuziale, la madre o la parente più prossima dello sposo si porta a casa della signorina e le presenta un vezzo di perle fini, che ella porta regolarmente al collo da quel giorno fino al termine dell’anno del suo matrimonio. Vi sono poche famiglie che abbiano di proprio questi vezzi di perle, o che vogliano farne la spesa; si prendono bensì a nolo, e se sono punto belli, il nolo è carissimo. Questa presentazione porta seco balli, banchetti, abiti e per conseguenza molte spese.

Non farò parola dell’altre cerimonie successive che sono a un dipresso simili a quelle che si fanno dappertutto. Mi fermo unicamente su quella delle perle, che avrei dovuto fare e non feci per cento ragioni, la prima delle quali era di non aver più denaro. […]

Il mio studio non rendeva quasi nulla, avevo contratto debiti, mi vedevo sull’orlo del precipizio, ed ero fidanzato. Ruminai, riflettei e sostenni l’atroce guerra dell’amore e della ragione; quest’ultima facoltà dell’anima la vinse sopra l’impero dei sensi.

Partecipai a mia madre la mia condizione, ed ella convenne meco con le lacrime agli occhi che, per evitare la rovina, era necessario un violento partito (fuga).

Impegnò i suoi capitali per pagare i miei debiti a Venezia; io le cedei i miei di Modena per il suo mantenimento, e presi la risoluzione di partire. […] Portai meco il mio tesoro: era l’Amalasunta, che avevo composta nei momenti d’ozio e sopra la quale avevo delle speranze che credevo ben fondate. […]

Mi ero proposto di presentare il mio dramma alla direzione, che era in mano della nobiltà di Milano, e avevo fatto conto che la mia opera sarebbe stata bene accolta e non mi sarebbero mancati cento zecchini; ma a chi fa i conti senza l’oste, convien farli due volte”.

Goldoni getterà poi nel fuoco questa sua composizione, dopo aver ricevuto commenti negativi sulla stessa.

 

Goldoni inizierà a ottenere le sue prime soddisfazioni a livello teatrale grazie al Belisario, una tragi-commedia, che nasce da una precedente commedia messa in scena dal Capocomico Gaetano Casali, a Milano, ma che fu una cattiva rappresentazione. Proprio perché la rappresentazione non era soddisfacente, Il Casali chiese a Goldoni di riscriverla.

Da Memorie, di Carlo Goldoni, Cap. XXXVI: “Finalmente il 24 novembre 1734 andò per la prima volta in scena il mio Belisario. Era il mio primo passo, e non poteva riuscire né più bello né più soddisfacente per me. La rappresentazione fu ascoltata con un silenzio straordinario, quasi ignoto negli spettacoli d’Italia. Il pubblico, assuefatto allo strepito, rompeva il freno tra atto e atto; e con gridi di gioia, battimani e segni ripetuti a vicenda, ora dalla platea, ora dai palchetti, si profondevano all’autore e agli attori, gli applausi più strepitosi. Alla fine della rappresentazione tutti codesti impeti di soddisfazione, per vero dire poco comuni, raddoppiavano in maniera che gli attori stessi n’erano commossi. Gli uni piangevano, gli altri ridevano, ed era la gioia medesima che produceva effetti diversi”.

Trasferitosi poi a Verona, Goldoni ebbe modo di far leggere Il Belisario al Capocomico Giuseppe Imer, che decise di portarla a Venezia.

È il punto di svolta per Goldoni, il quale da questo momento in poi si dedicherà esclusivamente al teatro.

Tratto (con adattamenti e riduzioni) da Memorie, di Carlo Goldoni

 

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