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Mai umiliare la controparte

La battaglia delle forche caudine ci fornisce un utile insegnamento

Durante una negoziazione non dobbiamo mai tenere atteggiamenti che possano offendere od umiliare la controparte.

Anche alla fine di una trattativa non dobbiamo mai far trasparire la nostra piena soddisfazione nel caso avessimo ottenuto un risultato che va oltre le nostre aspettative.

Farlo potrebbe far nascere nella controparte sentimenti di rivincita che sicuramente non gioveranno qualora ci si ritroverà a negoziare insieme.

Inoltre presa dal risentimento, la controparte potrebbe, alla prima occasione, non onorare gli accordi presi.

L’ottimo sarebbe quello di farla uscire da una negoziazione con la sensazione di essere stata la migliore a negoziare.

 

La battaglia delle Forche Caudine

Un insegnamento sull’inutilità di umiliare la controparte che determinò la non accettazione di un accordo è stato raccontato dallo storico Tito Livio (59 a.C. – 17 d.C.) nel libro IX del suo Ab Urbe condita [1] , riguardante l’umiliante sconfitta nel 321 a.C. dell’esercito Romano, nella battaglia delle Forche Caudine [2], da parte dei Sanniti.

Tito Livio riferisce che grazie ad uno stratagemma i Sanniti erano riusciti a sorprendere l’intero esercito Romano, composto da ventimila uomini, in una piccola valle da cui si accedeva da due passi alti, stretti e selvosi, circondata da monti ripidi che non offrivano passaggi.

Quando i Romani trovarono il passo di uscita bloccato da tronchi, macigni ed un presidio di nemici, tornarono indietro ma videro l’entrata bloccata dai Sanniti e si resero in conto di essere caduti in trappola.

Compreso che non avevano altra via d’uscita, mandarono degli ambasciatori per negoziare una pace equa.

L’esercito dei Sanniti guidato da Gaio Ponzio, davanti a tale favorevole circostanza, non sapeva prendere una decisione su come affrontare tale situazione e d’accordo con i suoi luogotenenti mandò un messaggero per chiedere al padre Gaio Erennio Ponzio, famoso presso i Sanniti per la sua grande saggezza e per essere stato in passato un grande combattente e stratega di prim’ordine, cosa fare delle catturate legioni.

L’anziano sannita come risposta consigliò di lasciar andare i Romani senza torcere loro un capello.

La risposta però non fu gradita e si rimandò il messaggero per avere qualche altra indicazione.

La seconda risposta di Erennio fu di uccidere tutti i Romani, dal primo all’ultimo.

La completa diversità delle due risposte stupì Gaio Ponzio che temendo una caduta mentale dell’anziano padre, lo fece trasportare con un carro al campo sannita presso il Consiglio di guerra nel frattempo riunito.

Una volta arrivato, Erennio si limitò a spiegare al Consiglio, il senso delle sue differenti risposte:

Se i soldati fossero stati lasciati andare con l’onore delle armi, si sarebbe potuto contare su una pace duratura, sulla gratitudine di Roma e l’amicizia di un popolo potentissimo.

Se invece l’esercito romano fosse stato distrutto, si sarebbe evitata la guerra per molti anni in quanto Roma non avrebbe potuto riarmarsi in breve tempo ed inoltre non sarebbe stato facile per i Romani raggiungere di nuovo la potenza di un tempo. Una terza via non esisteva.

Bisogna dire che i Sanniti arrivavano da una situazione di esasperazione dovuta a tutta una serie di scontri in cui i Romani avevano avuto la meglio.

In tutto l’esercito Sannita serpeggiava quindi un senso di rivalsa ed un desiderio di vendetta verso i Romani.

Al tempo stesso però si voleva evitare un annientamento completo delle legioni romane prese prigioniere in quanto era noto che tale circostanza avrebbe ridestato focolai di insurrezione di quelle genti latine soggiogate solo pochi anni addietro e con molte difficoltà sia dai Romani che dagli stessi Sanniti.

Pertanto, il Consiglio di guerra Sannita insistette verso il padre Erennio per chiedergli che cosa ne pensasse di una soluzione di mezzo e cioè quella di permettere ai Romani di andarsene sani e salvi ma imponendo loro in quanto vinti delle condizioni umilianti.

Erennio, in base a quanto lasciatoci da Tito Livio, rispose:

“Questa soluzione e tale che non vi acquisterà degli amici non vi libererà dai nemici.

Salvate pure la vita a uomini che avete esasperato con un trattamento umiliante: la caratteristica del popolo romano è quella di non sapersi rassegnare alla condizione di vinto.

Nei loro cuori sarà sempre vivo il marchio di infamia del caso presente, e questo non darà loro pace fino a quando non vi avranno ripagato con pene molte volte più dure”. [3]

Non contenti delle risposte dell’anziano genitore Erennio venne riportato a casa sua e Gaio Ponzio a nome del Coniglio pose ai Romani le sue condizioni:

“Li avrebbero fatti passare sotto il giogo privi di armi e con una sola veste per ciascuno.

Il resto delle condizioni sarebbe stato equo per vincitori e vinti: se i Romani abbandonavano il territorio sannita e ritiravano le colonie fondate, allora Romani e Sanniti in futuro sarebbero vissuti attenendosi alle loro leggi in base a un patto di alleanza alla pari.” [4]

I comandanti Romani consci dell’umiliazione a cui sarebbero andati incontro accettarono quelle condizioni giustificandole come necessarie per la difesa della patria che altrimenti perso l’esercito sarebbe stata senza difese.

 

Tito Livio scrive:

“E venne l’ora fatale dell’ignominia destinata a rendere tutto, alla prova dei fatti, ancora più doloroso di quanto non avessero immaginato. In un primo tempo ricevettero disposizione di uscire dalla trincea senza armi, con addosso un’unica veste (…) I consoli furono i primi a esser fatti passare seminudi sotto il giogo; poi, in ordine di grado, tutti gli ufficiali vennero esposti all’infamia, e alla fine le singole legioni una dopo l’altra.

I nemici stavano intorno con le armi in pugno, lanciando insulti e sbeffeggiando i Romani.

Molti vennero minacciati con le spade, e alcuni furono anche feriti e uccisi, se l’espressione troppo risentita dei loro volti a causa di quell’oltraggio offendeva il vincitore. Così furono fatti passare sotto il giogo, e cosa questa quasi ancora più penosa, proprio sotto gli occhi dei nemici.” [5]

Alla fine, i sodati Romani rientrarono a Roma e lo fecero di notte in quanto erano pieni di vergogna dall’aver accettato una pace così umiliante.

Il Senato Romano esaminata la vicenda, dichiarò che l’impegno assunto dai comandanti dell’esercito non aveva alcun valore perché essi non avevano avuto il parere favorevole né del popolo né del Senato di Roma. Fu quindi ricomposto l’esercito che marciò subito contro il nemico travolgendolo, animato com’era dalla collera per l’umiliazione subita alle forche caudine.

Alla luce del racconto di Tito Livio sopra esposto, quello che si vuole far presente è che il motivo principale che determinò la non accettazione, da parte del Senato Romano e dalla popolazione romana stessa, dell’impegno di pace sottoscritto dai comandanti militari Romani alle Forche Caudine furono proprio le modalità esageratamente umilianti con cui i Sanniti imposero le loro condizioni.

A tal proposito ecco cosa scrive Tito Livio, dopo che i Romani comunicarono ai Sanniti che il Senato Romano non avrebbero accettato le condizioni imposte:

“I Sanniti, che al posto di una pace imposta con arroganza vedevano rinascere una guerra minacciosa, avevano non solo nell’animo ma quasi di fronte agli occhi il presentimento di quello che poi accadde.

Ed elogiavano tardi e invano entrambi i suggerimenti dell’anziano Ponzio, perché, caduti com’erano a metà tra l’uno e l’altro, avevano barattato il possesso della vittoria con una pace priva di garanzie.

Perduta così l’occasione di danneggiare il nemico o di arrecargli un beneficio, avrebbero dovuto misurarsi con quegli uomini che sarebbe stato loro possibile eliminare una volta per tutte come nemici o rendersi amici per sempre” [6].

I Sanniti nel momento in cui imponevano ai Romani condizioni così umilianti soddisfarono la loro voglia di rivalsa nei confronti dei Romani.

Purtroppo però non tennero in considerazione, come invece aveva ben evidenziato l’anziano Erennio, le conseguenze finali che avrebbe avuto il loro gesto e cioè il completo annientamento e l’integrazione forzata dei Sanniti nel sistema capitolino.

 

Mai dare per scontato che un accordo sarà onorato sino alla fine

Concludendo, quello che ci preme far presente dopo la lettura di questo articolo è che la questione più importante a cui chi negozia e gestisce deve sempre prestare attenzione è quella di non dare mai per scontato che un accordo contrattuale negoziato e firmato verrà onorato sino alla fine.

Vi potranno essere svariate motivazioni, situazioni e questioni di principio per cui la controparte potrebbe essere non più interessata a portare avanti gli accordi contrattuali negoziati.

Non ultimo quello di affermare di essere stata umiliata.

A tal fine è necessario prestare, tra le varie cose, molta attenzione anche a non dare alla controparte sufficienti giustificazioni nel rimangiarsi gli accordi negoziati.

Si ricorda che la difficoltà maggiore non è raggiungere l’accordo, ma far sì che i termini dell’accordo siano rispettati.

Per maggiori approfondimenti sugli accordi negoziati leggi l’articolo, presente in questo blog, dal titolo: Comprendere la realtà della negoziazione.

Se invece vuoi approfondire la lettura dello storico Tito Livio sulle dinamiche riguardanti la battaglia delle forche caudine e sugli scontri tra Romani e Sanniti che porteranno Roma ad affacciarsi più decisamente sul Mediterraneo, ti suggerisco di leggere: Storia di Roma. Libri 9-10. Il trionfo sui sanniti.

 

 

[1] Ab Urbe condita, nota come “Storia di Roma dalla sua fondazione” è una imponente opera composta da 142 libri scritta da Tito Livio a cominciare dal 27 a.C.  Dei 142 libri se ne sono conservati solo 35. In particolare i libri 1-10 e 21-45 e scarsi frammenti degli altri. L’opera di Tito Livio copre il periodo dalla fondazione di Roma (753 a.C.) fino alla 9. a.C.

[2] Tito Livio precisa all’interno della sua opera che non si trattò di una vera battaglia ma di una resa, in quanto i Romani si resero quasi subito conto di essere caduti in una trappola e di non aver nessuna possibilità di uscire da quella situazione con il combattimento.

[3] Ab Urbe condita (IX, 3).

[4] Ab Urbe condita (IX, 4).  Per “giogo”, si intende sia l’attrezzo di legno che si pone al collo dei bovini per attaccarvi il carro o l’aratro e che obbliga l’animale a chinare la testa, soprattutto sotto lo sforzo del tirare. Sia la struttura di due lance conficcate verticalmente nel terreno e sormontate da una terza lancia orizzontale, simile a una bassa porta, sotto la quale i comandanti degli eserciti vincitori dell’antichità obbligavano a passare i nemici vinti, obbligandoli così a inchinarsi nel tradizionale segno di sottomissione al più forte. Tale struttura diverrà successivamente nota anche con la denominazione di “forche caudine”, dal nome della località di Caudium, (presso Benevento) dove avvenne tale episodio.

[5] Ab Urbe condita (IX, 5 e 6).

[6] Ab Urbe condita (IX, 12).

 


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