Come morì Giulio Cesare lo apprendiamo dalla lettura dell’opera (“Vite dei Cesari”) di Gaio Svetonio Tranquillo, storico romano già altre volte citato nel nostro blog: Che tipo era Giulio Cesare ? Parola di Svetonio
Più di sessanta cittadini dell’antica Roma cospirarono contro Giulio Cesare, guidati da:
- Gaio Cassio Longino
- Marco Giunio Bruto
- Decimo Giunio Bruto Albino
I capi della congiura erano indecisi se assassinarlo al Campo di Marte, durante le elezioni, oppure sulla via Sacra o mentre entrava in teatro.
L’occasione fu propizia quando si seppe che il Senato si sarebbe riunito nel giorno delle idi di marzo (il 15 del mese).
Era l’anno 44 a.C..
Luogo del delitto: la curia di Pompeo, nella parte meridionale del Campo Marzio, scena ideale per il mortale agguato.
La morte di Cesare – come nei migliori thriller – fu annunciata da oscuri segni premonitori.
Durante un sacrificio, l’aruspice Spurinna (che era il suo indovino personale) lo ammonì di “fare attenzione al pericolo che non sarebbe andato oltre le idi di marzo”.
Nella notte precedente la sua morte, Cesare sognò di volare al di sopra delle nubi e di stringere la mano di Giove. La moglie Calpurnia sognò, invece, che il tetto della casa era crollato lasciando il marito morto tra le sue braccia…
Cesare, invero, a motivo dei brutti presagi e di uno stato di salute cagionevole in quel periodo dell’anno accarezzava la prudente idea di restare a casa e non andare in Senato.
Fu Decimo Bruto che lo convinse, esortandolo a non privare della sua presenza i senatori accorsi in gran numero, che lo stavano aspettando già da un pezzo.
Sulla strada per il Campo di Marte, accompagnato dal suo seguito personale, il dittatore prese dalle mani di un cittadino che gli era venuto incontro un biglietto che lo avvertiva del complotto. Immaginando, però, che fosse la solita supplica per un favore trascurò di leggerlo nell’immediato…
Poco prima di entrare nella curia dimenticò ogni scrupolo religioso tanto da prendersi pure gioco di Spurinna poiché le idi erano arrivate senza alcun danno.
L’indovino rispose, comunque, che le idi di marzo…in quel momento …non erano ancora passate.
Ecco che il generale varca la porta che conduce ai banchi dei senatori.
Tutti si girano a guardarlo, alcuni con ammirazione, altri con timore, altri ancora con il viso marcato da quell’odio che armerà le loro mani per colpire il nemico giurato.
Cesare prende posto a sedere, i congiurati lo circondarono con il pretesto di rendergli onore e subito Lucio Tillio Cimbro gli si fa più vicino, come se volesse chiedere un favore.
La vittima designata, però, non lo considera; anzi, con un gesto altezzoso gli suggerisce quasi di rimandare la cosa ad altro momento…
Tillio Cimbro lo strattona, afferrandolo per la toga, Cesare sbotta: “Questa è violenza bell’e buona!” mentre il primo fendente arriva, poco sotto la gola, per mano di uno dei due fratelli Casca che lo colpisce dalle spalle.
Cesare afferra il braccio dell’aggressore e lo colpisce a sua volta… poi tenta di fuggirei in avanti ma ecco che giunge un altro fendente!
In un attimo i pugnali degli aggressori si moltiplicano; la pietra dei banchi di curia si tinge di rosso, il sangue del fiero condottiero si sparge abbondante a terra.
La vittima – sentendosi perduta – si avvolge la toga intorno al capo e lascia che l’orlo gli copra le ginocchia…decoro, sino all’ultimo.
Così muore Gaio Giulio Cesare, trafitto ventitré volte.
Un solo gemito, una sola terribile domanda che affiora dalla gola ormai agonizzante: “Anche tu, Bruto, figlio mio?”.
Tre servi recuperano il corpo del loro padrone privo di vita; lo caricano su di una lettiga e con un braccio a penzoloni lo portano fino a casa.
Il medico Antistio esegue una sommaria autopsia: la ferita mortale fu la seconda, in pieno petto.
I congiurati avrebbero voluto gettare il corpo dell’ucciso nel Tevere, confiscare i suoi beni e annullare tutti i suoi atti ma rinunciarono al proposito per paura della reazione ostile del console Marco Antonio e del maestro dei cavalieri, Marco Emilio Lepido.
Il testamento di Cesare fu aperto su richiesta del suocero, Lucio Pisone, e venne letto nella casa di Antonio. Cesare lo aveva redatto alle ultime idi di settembre, nella sua proprietà di Lavico, e lo aveva affidato alla Grande Vergine Vestale.
Nel testamento nominò suoi eredi i tre nipoti, figli delle sorelle:
- Gaio Ottavio per i tre quarti,
- Lucio Pinario e Quinto Pedio per il quarto rimanente.
Adottò Gaio Ottavio, dandogli il proprio nome.
Questi diverrà il grande Cesare Ottaviano Augusto, di fatto il primo imperatore dell’antica Roma.
Assegnò al popolo i suoi giardini in prossimità del Tevere e trecento sesterzi a testa.
Stabilita la data del funerale, fu eretto il rogo nel Campo di Marte, presso la tomba di Giulia (sua figlia) e si costruì, nelle vicinanze dei rostri, una cappella dorata sul modello del Tempio di Venere Genitrice. All’interno fu collocato un letto d’avorio ricoperto di porpora e d’oro e sulla testata fu posto un trofeo con gli abiti che Cesare indossava quando morì.
Un solo giorno non sembrava abbastanza lungo per permettere la sfilata di tutti coloro che portavano doni. Si ordinò, dunque, che ciascuno li depositasse nel Campo di Marte senza un ordine prestabilito.
Foto di Largo Argentina (Roma). Il luogo dove fu assassinato Giulio Cesare
Il letto funebre fu portato nel foro, al cospetto dei magistrati in carica e di quelli che li avevano preceduti.
Alcuni volevano che le spoglie del condottiero fossero cremate nel santuario di Giove Capitolino, altri invece nella curia di Pompeo.
Ecco, però, che due uomini con i gladi alla cintura, tenendo due giavellotti tra le mani, appiccarono il fuoco con torce ardenti. Subito la folla dei presenti gettò sopra il rogo legna secca, panchetti, i sedili dei giudici e tutti i doni che trovò.
I veterani delle legioni di Cesare gettarono sulla pira le armi con le quali si erano parati per il funerale.
Molte matrone lanciarono i gioielli che portavano indosso e le bolle d’oro e le preteste dei loro figli.
Oltre a queste grandiose manifestazioni di dolore pubblico anche le colonie di stranieri, ciascuna a suo modo, espressero il loro cordoglio; primi fra tutti i Giudei che, pure nelle notti successive, si riunirono attorno alla tomba.
Non appena ebbe termine il rito funebre, la plebe si diresse, con le torce, verso la casa di Bruto e di Cassio.
Si imbatté in Elvio Cinna e scambiandolo per errore con Cornelio, quello che il giorno prima aveva pronunciato una violenta requisitoria contro Cesare, lo uccise,
La sua testa fu portata in giro, conficcata su una lancia.
Più tardi si fece erigere nella piazza una massiccia colonna di marmo di Numidia, alta quasi venti piedi, e vi si scrisse sopra: “Al padre della patria”.
Si conservò, per lungo tempo, l’abitudine di offrire sacrifici ai piedi di questa colonna, di prendere voti e di regolare certe controversie giurando in nome di Cesare.
Cesare suscitò in alcuni suoi amici il sospetto che non volesse vivere più a lungo e che non si preoccupasse del declinare della sua salute.
Per questo non si curò né di quello che annunciavano i prodigi né di ciò che gli riferivano gli amici.
Alcuni credono che, facendo eccessivo affidamento nell’ultimo decreto del Senato e nel giuramento dei Senatori, abbia congedato le guardie spagnole che lo scortavano armate di gladio.
Secondo altri preferì, al contrario, cadere vittima una volta per tutte delle insidie che lo minacciavano da ogni parte piuttosto che doversi guardare continuamente le spalle.
Dicono fosse solito ripetere che “non tanto a lui, quanto allo Stato doveva importare la sua salvezza”.
Su di una cosa tutti furono d’accordo: Cesare, in un certo senso, aveva incontrato la morte che desiderava. Rapida, senza esitazioni.
Il giorno prima di morire, infatti, a cena da Marco Lepido, si venne a discutere sul genere di morte migliore ed egli disse di preferire quello improvviso e inaspettato.
Morì a cinquantacinque anni e fu annoverato tra gli dei, non per volere di pochi ma per intima convinzione del popolo intero.
E durante i primi giochi che Augusto, suo erede, celebrò in suo onore, dopo la consacrazione, una cometa rifulse per sette giorni di seguito, sorgendo verso l’undicesima ora. Si credette, allora, che fosse l’anima di Cesare accolta in cielo.
Dei suoi assassini, nessuno sopravvisse più di tre anni e nessuno morì di morte naturale.
Tutti, dopo essere stati condannati, per un verso o per l’altro, morirono tragicamente, chi per naufragio, chi in battaglia.
Alcuni, poi, si uccisero con lo stesso pugnale con il quale avevano assassinato Cesare.
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